4.1 Essere pensiero e linguaggio.
[...] occorre servirsi della "causa" e "dell’effetto" soltanto come di puri concetti,ovvero come finzioni e convenzioni che hanno come scopo la definizione, la connotazione, non la spiegazione [...] Siamo soltanto noi che abbiamo immaginato le cause, la successione, la reciprocità, la relatività, la costrizione, il numero, la legge, la libertà, il motivo, lo scopo; e se noi ideiamo e innestiamo nelle cose questo mondo di segni come se esistessero "in sé", allora operiamo ancora una volta come abbiamo sempre operato, vale a dire facciamo mitologia. "La volontà non libera" è mitologia. (Nietzsche, Al di là del bene e del male, Cap 1.27)

Perché questa indagine sul lavoro di Daniel Dennett?
Nell'approfondire il dibattito attuale sulla mente e sulla coscienza, antecedente al nostro studio del filosofo, siamo giunti al constatare quanto, in ultima istanza, la scissione tra materiale e mentale fosse qualcosa di universalmente diffuso: la mente sarebbe altro dal corpo.
La nostra acquisizione era chiara: la distinzione cartesiana tra res cogitans e res extensa non è stata ancora superata.

Perché questa scissione?
Essa è qualcosa di reale o semplicemente è un'eco di elementi culturali come la teologica distinzione anima-corpo?
Questa scissione verrà superata in un futuro sviluppo ed evoluzione dell'analisi di queste problematiche?
Che rapporti esistono quindi tra questa scissione e la cultura occidentale in senso generale?

Il nostro interesse per il lavoro di Dennett è partito anche da questo tipo di domande.
Uno dei punti nodali della discussione di Dennett (come abbiamo visto) è costituito dall'ambizione del filosofo di superare la frattura tra mentale e fisico, tra res cogitans e res extensa,  partendo anzitutto da una pesante critica a tutte le forme di dualismo e neodualismo.

La nostra prospettiva a riguardo era ed è sicuramente differente da quella di Dennett, come differenti sono le domande dalle quali Dennett parte e la metodologia tramite la quale tali domande sono affrontate.
(Il nostro studio su Dennett è stato in questo senso una sfida culturale poiché, al di la del banale problema linguistico, siamo giunti a contatto con un ambito filosofico le cui metodologie sono decisamente distanti da quelle sulle quali ci siamo formati o che prediligiamo).

Per noi tale frattura non è un pregiudizio antistorico del quale, semplicemente, dobbiamo liberarci.
Essa è sicuramente mito, o componente di elementi mitologici, ma il mito non è da intendere in una accezione filosoficamente negativa: la filosofia infatti, e tutto lo scibile, hanno fondamento su convinzioni, idee, filosofemi profondi dai quali non possiamo prescindere: tali elementi sono certo mito, ma di essi non possiamo liberarci del tutto.

Non solo: a nostro modo di vedere questa scissione non poteva e non può essere risolta, come Dennett infondo propone, annullando in toto una delle componenti. (la res cogitans)
Questo tipo di soluzione è depositaria del medesimo errore (se di errore in filosofia si può parlare) che sottende l'impostazione idealista. (Nella quale è la res extensa ad essere annullata o pesantemente ridimensionata).

Cerchiamo di collocare quindi, per quanto è possibile in questa sede, la frattura tra res-cogitans e res extensa all'interno di una più vasta mitologia.

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Il primo, il più profondo elemento di questa mitologia è il mito della necessità, della assoluta coerenza dell'Essere.
L'intera  filosofia e la cultura occidentali hanno fondamento su esso: l'Essere è ordinato, coerente, non contraddittorio, regolare.
Lungo tutto il corso della storia, in innumerevoli forme e determinazioni, i come e i perché di questo ordine hanno costituito l'ambizione che ha guidato l'indagine e la speculazione filosofica, teologica e scientifica.
Non possiamo soffermarci dettagliatamente sul questi aspetti ma evidenziamo che senza il mito in questione non è possibile pensare l'esistenza della scienza stessa.

Non potrebbe esservi scienza senza la certezza intuitiva che è possibile cogliere la realtà con le nostre costruzioni teoriche, senza la fede nell'armonia intrinseca del mondo. Questa fede è e rimarrà sempre la spinta fondamentale per tutta la creazione scientifica. (Einstein 1938, p 303)

La stessa idea di ripetibilità e riproducibilità di un esperimento è sottesa da questo mito, da questa certezza intuitiva.
Come si potrebbe infatti pretendere di riprodurre un esperimento se non si accordasse alla realtà fisica una coerenza? Un ordine? Una regolarità?
Come si potrebbe pretendere di accordare all'esperimento la valenza di prova se non si supponesse preliminarmente che tale prova è tale proprio perché prova una regolarità?

Ma come abbiamo tale certezza?
Non l'abbiamo: essa non è infatti una certezza ma una credenza, appunto un mito.
Questo tipo di credenze sono infondate e fondanti, non hanno infatti alcun principio teorico ad esse esterno o antecedente ma costituiscono il presupposto ad ogni indagine.
Di esse non possiamo liberarci sbrigativamente perché queste credenze ci costituiscono intimamente.

Dal mito della necessità scaturiscono immediatamente diverse determinazioni.
L'idea che l'Essere sia ordinato può implicare (e ha implicato) una entità ordinatrice.
Se l'Essere è ordinato, non contraddittorio, logico, regolare, può (o addirittura deve) esistere un qualcosa dal quale questo ordine e questa regolarità scaturiscono. (Non è casuale che storicamente l'indagine filosofica nasca come indagine e ricerca di questo archè.)
Questa entità ordinatrice può essere in re (il Logos), ante rem (Dio) o post rem (nell'uomo, nel soggetto medesimo)
Essa, in tutti i casi, ha natura spirituale,  è pneuma,  pensiero, res cogitans: è altro dalle cose visibili e tangibili ma le permea, le governa e le determina intimamente.
L'identificazione, o appunto l' intima correlazione, tra Essere e Pensiero è quindi il secondo momento di questa mitologia: è in tale momento che la res cogitans ha modo di determinarsi.

Cos'è però il Pensiero anzitutto se non Linguaggio? (logos, appunto discorso).
Il logos identifica sia il discorso umano (e in quanto tale è linguaggio), sia la struttura o la dinamicità dell'Essere.
Il logos è quindi intimamente connesso sia alla razionalità (umana) sia alla necessità (non umana ma "razionale").
Il completamento di questa mitologia è il profondo sinolo Essere-Pensiero-Linguaggio.

Non è casuale che nella teologia occidentale, Il Verbo (ovvero il logos) sia il principio divino dell'Essere e la natura e la sapienza divina sia nel contempo Verità. (E in quanto tale linguisticamente proferibile)
La verità divina è identificata con il pensiero divino, che è Essere, e tale verità è manifestata da Dio attraverso la Sua Parola.
Nella teologia giudaico-cristiana il sinolo Essere-Pensiero-Linguaggio è espresso completamente nell'unicum divino.

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Storicamente la cartesiana distinzione res cogitans- res extensa, che ha comunque degli antecedenti ( tra essi la distinzione tomistica tra ente reale ed ente logico), è un momento fondamentale per quanto concerne questo sinolo Essere-Pensiero-Linguaggio.
Tale distinzione può essere intesa come il primo momento nel quale tale sinolo subisce una prima vistosa frattura: l'Essere (fisico) e il Pensiero (spirituale) non sono più intimamente interconnessi, costituiscono due ambiti separati, paralleli.

Le implicazioni storiche di questa frattura sono sterminate.
La res extensa e la res cogitans possiedono lo stesso status ontologico, possiedono lo stesso grado di realtà, ma sono distinte. (Sebbene la res cogitans si posizioni in  livello gnoseologico superiore, poiché è dell'esistenza della res cogitans che abbiamo certezza assoluta)
Non esiste quindi un Essere unico permeato intimamente dal Logos, esistono almeno due sfere dell'Essere e tali sfere sono separate.
La domanda su come tale separazione possa aver luogo, ma ancora di più su come il rapporto tra esse possa esistere è una domanda, un enigma, che si ripropone praticamente immutata tuttoggi. (E proprio contro questa impostazione che Dennett si muove e non è casuale che tale domanda dia avvio al primo capitolo del presente studio).

Questo enigma si manifesta oggi nelle filosofie della mente e la soluzione e riduzione del rapporto tra mente e corpo risulta ancora insolubile e miracolosa proprio come ai tempi degli occasionalisti, le differenze sono costituite da un lato dal  rifiuto deontologicamente scientifico dell'intervento o della presenza del divino (e tale rifiuto, come si sa, non è per nulla generale e universalmente condiviso) dall'altro da una differenza prospettica: la res cogitans, che continua ad avere il primato gnoseologico possiede uno status ontologico inferiore; essa è un attributo, una proprietà della res extensa, è qualcosa che emerge da essa: il problema è costituito dal determinare in che maniera tale emersione possa avere luogo.
Cambia forse la prospettiva ma non cambia il problema: qual'è il sinolo? (The hard problem)

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Giungiamo quindi al terzo elemento di questo "dogma trinitario".
L'identificazione Pensiero-Linguaggio.
Questa terza componente non ha subito storicamente alcuna frattura, bensì un rafforzamento.

Nelle filosofie del novecento si ha una presa di coscienza della impraticabilità di una identificazione o di una eccessivo accostamento Essere-Pensiero (Anche in reazione all'idealismo ottocentesco).
L'aspetto notevole di questa presa di coscienza è il concomitante rafforzamento dell'identità Pensiero-Linguaggio.

Nella filosofia analitica, nel pragmatismo, nell'esistenzialismo e nell'ermeneutica (tanto per citare alcune delle correnti principali) tutto l'ambito della conoscenza tende ad essere ridotta a fattore linguistico.
(La nascita di discipline quali la linguistica e la semiotica possono essere intese come ulteriori espressioni di questo processo)

La stessa matematica, escludendo parzialmente la scuola intuizionista, è concepita come sistema simbolico-linguistico.
Nel paradigma logicista, del quale abbiamo discusso nel secondo paragrafo del primo capitolo, essa è in tutto e per tutto riducibile alla logica, intesa  sia come essenza del linguaggio sia come componente fondamentale del pensiero. (Nonché, talora, anche come qualcosa di proprio e predicabile della struttura dell'Essere).

Nell'attuale paradigma computazionalista il pensiero è qualcosa di esclusivamente linguistico: pensare equivale in tutto e per tutto a manipolare segni, calcolare.
In determinazioni estreme come in quelle assunte da una diversi sostenitori dell'intelligenza artificiale in senso forte la stessa coscienza sarebbe niente più che l'implementazione e l'esito di una manipolazione algoritmica di simboli.

Nello stesso Dennett, per tornare al nostro filosofo, l'identificazione in questione si ripropone in un grado deciso attraverso la metafora narrativa che costituisce la multiple drafts model, il concepire la coscienza, il pensiero, come  narrazionecentro di gravità di essa, è concepire il pensiero come qualcosa di fondamentalmente linguistico.
In Dennett inoltre (come abbiamo discusso concludendo il terzo paragrafo del secondo capitolo) l'identità segnale-segno-significato, il monopolizzare risorse da parte di un contenuto (che per noi è appunto impossibile), esprime perfettamente la linguistical stance della quale abbiamo accennato nel primo paragrafo del primo capitolo.